Se la forza di un packaging studiato per vendere è quella di fare emergere un prodotto anche nei mercati più competitivi, quando lo stesso packaging arriva in un mercato “vergine” ti lascio immaginare quali possano essere le conseguenze.
Ma oggi esistono ancora mercati vergini?
Sembrerebbe di no, molti sono veramente saturi, infatti ogni categoria merceologica conta un numero elevato di referenze al punto che nessun operatore della grande distribuzione può permettersi un assortimento completo.
Fai tu stesso un test con i prodotti di largo consumo e noterai che anche quelle categorie molto presenti nelle nostre abitudini di acquisto (prodotti monouso in genere, pasta o caffé) costringono i buyer della grande distribuzione o del Trade a fare delle scelte.
Sembrerebbe quindi che non esistano mercati realmente vergini, ma cosa succede quando in un mercato competitivo nessun brand si è realmente posizionato passando dal packaging? “Ehhh.. aaaaddirittura!”. É impossibile direte voi?
Vi posso assicurare che ad oggi esistono ancora mercati da conquistare, dove aziende che fatturano decine e decine di milioni di euro non hanno ancora fatto branding.
Mercati dove esiste un leader di mercato nei numeri (fatturati), ma dove il consumatore non ha elementi per identificarlo: ai suoi occhi si equivalgono tutte.
Questo mi fa dire che il leader, se non si affretta, sarà presto in forte pericolo perché sarà il più veloce a cogliere le opportunità enormi offerte da questa situazione.
Quando nessuno comunica con il packaging TU puoi fare la differenza, facendo la cosa giusta.
La forza del brand e la sua comunicazione attraverso un imballo dedicato non ha toccato tutte le categorie merceologiche, infatti alcune categorie non hanno avuto la possibilità di personalizzare l’imballo, riducendo a 2 gli elementi che il consumatore conosce ed utilizza per prendere la sua decisione: il prezzo e la tipologia specifica di prodotto.
Prendiamo ad esempio la categoria del “Prosciutto Crudo”, un argomento a me facile essendo nato a Parma, la ricetta del prosciutto di Parma molto semplicemente è: coscia di maiale, acqua, sale e aromi naturali. Pertanto non posso differenziarmi con il prodotto perché quelle sono le caratteristiche da rispettare.
Se il prosciutto è quello di Parma avrà sicuramente la “corona” che lo distingue dagli altri per la tutela del Consorzio, il cartiglio a fascetta con il brand dell’azienda che lo produce e le caratteristiche (es: 24 mesi), oltre alla borchia di tracciabilità inserita nel gambetto.
Domanda: Come viene venduto il prosciutto?
Risposta: Al banco dei salumi.
Il banconiere che affetta il prosciutto, una delle prime operazioni che fa è quella di eliminare la fascetta dalla coscia e di conseguenza sbrandizzare (no branding, no naming) il prodotto rendendolo anonimo e uguale a tutti gli altri, facendo sì che il consumatore ordini tre etti di prosciutto di Parma, ma non di quella marca specifica con quelle caratteristiche.
La conseguenza di mercato? Ci sono aziende che fatturano decine e decine di milioni di euro, e non fanno conto terzi e non sono riconosciute come marca, semplicemente perché non la riescono a comunicare!
Quali potrebbero essere le soluzioni?
Alcuni imprenditori molto talentuosi hanno pensato di entrare negli affettati in vaschetta, mercato del take way o libero servizio nel GD, GDO o Trade, così facendo hanno fatto Branding. Quando il tuo mercato non te lo permette ti devi spostare creandone uno, basta pensare e si troverà la soluzione.
Prendiamo una categoria come quella del latte, pensa se all’improvviso sparisse ogni forma di personalizzazione del pack, niente colori, nessuna differenza di struttura e nessun naming, niente di niente.
– confezione anonima (un non elemento visto che non comunica)
– prezzo (che assumerebbe un valore determinante)
– caratteristica generale del prodotto (parzialmente scremato, intero, lunga conservazione, fresco)
– origine geografica (non sempre evidenziata e importante solo per il consumatore più attento)
Se oggi non compri il latte in questo modo è perché l’imballo è riuscito a comunicare permettendoti di identificare il prodotto con precisione.
Ecco perché sulla lista della spesa puoi trovare scritto Latte Granarolo, Parmalat o Coop. Qui la scelta d’acquisto ricade anche sulla marca, scelgo il mio latte in funzione della percezione del brand. O pensi che il latte sia tutto uguale?
Puoi fare lo stesso test con le acque minerali.
Ma certo, mi dirai tu, l’acqua è l’acqua! Qual è la differenza?
Eccole qui le differenze:
Rocchetta la più diuretica (plin.. plin..), Levissima, altissima, purissima (quella di montagna) e la Ferrarelle (leggermente effervescente) ecc. Potrei andare avanti e farti leggere delle marche almeno per altri 5 minuti.
A questo serve il brand! A posizionare il prodotto così che sia riconosciuto e identificato con un nome preciso nel suo segmento, l’esatto opposto di un bene indifferenziato.
Altrimenti troveresti scritto “latte PS a lunga conservazione” che come sottotitolo riporta sempre il solito concetto, l’unico che può fare la differenza: quello che costa meno.
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Quando manca il brand la competizione è sul prezzo
Sì, perché quando il prodotto non è associato a un brand specifico grazie a un’immagine chiara e riconoscibile questo è quello che succede.
Torniamo però ai mercati vergini, ovvero quelle categorie che potrebbero fare il passo che il latte, le acque e altre categorie merceologiche hanno fatto da tempo.
Torno ai banconieri, ritengo che un settore dove si possa fare tanto sia quello delle carni / macelli (escludendo quello avicolo). Il primo che pianterà la sua bandierina nella mente del consumatore aumenterà inevitabilmente le proprie quote di mercato.
Oggi questo mercato è composto per la maggior parte di non imballi o imballi anonimi, chiamata da me categoria “etichette bianche”, etichette anonime e spesso non comprensibili al consumatore, supportate dalla classica vaschetta bianca di polistirolo avvolto dal cellophane.
Risultato finale:
- scelte basate solo sulla visione del prodotto
- il 95% lo fa il prezzo
- maggiore potere di acquisto da parte del buyer
- impossibilità di comunicare e radicare nella testa del consumatore il proprio brand
Cosa succederebbe se i grandi e piccoli produttori di carne, iniziassero a introdurre elementi di personalizzazione in quell’imballo che oggi ha una pura funzione contenitiva e igienica?
È in realtà quello che sta già accadendo nei paesi anglosassoni o Stati Uniti (il primo che ho in mente è Tesco) dove molti dei prodotti presenti nella categoria carni hanno iniziato a introdurre forti e chiari elementi di personalizzazione in modo da offrire subito un’immagine identificativa che associasse il prodotto al produttore e uscendo così dalla competizione basata unicamente sul prezzo.
Eppure anche se siamo dei grandi produttori e consumatori di carne, nessuno si è ancora mosso pesantemente. Fa eccezione il comparto avicolo dove possiamo osservare la forza di branding di successo (vedi AIA o Amadori come esempio). Le altre direzioni invece sono ancora inesplorate e offrono ancora tutto lo spazio per posizionare una brand leader.
Sono certo che a questo punto della lettura, alcuni di voi sono ancora diffidenti e diranno: “Una bistecca in una scatola?”. Potrà sembrarvi un’eresia, ma se pensate al primo che ha fatto branding sviluppando un packaging e inserendo all’interno un ciuffo di insalata, ha piantato la sua bandierina nella testa della gente e alla fine ha vinto la guerra. Game Over!
Il packaging fa vincere il più veloce
Quello che succederà nei prossimi anni (forse già nei prossimi 12 mesi) è che qualche produttore di carne inizierà a personalizzare il proprio imballo. Introducendo elementi identificativi chiari e distintivi agli occhi del consumatore e sfruttando la forza di un naming potente.
La fetta di mercato riservata alle aziende che per prime si muoveranno in questa direzione sarà decisamente sostanziosa e di fatto difficile da attaccare da parte dei competitor che arriveranno dopo.
Siamo realmente di fronte a un mercato vergine e le armi di conquista per quegli imprenditori illuminati che vorranno utilizzarle sono sicuramente il packaging.
Cosa significa conquistare una categoria merceologica in questo modo?
Significa stravolgere gli equilibri che attualmente regolano il rapporto tra produttore e buyer (più potere di vendita), operare con marginalità maggiori e fare in modo che sia il nome del tuo prodotto e della tua azienda a motivare la scelta del cliente.
Ho parlato del settore delle carni, ma esistono altre categorie che non stanno sfruttando pienamente il potere di comunicazione del packaging e nella mia testa so esattamente quali sono!
Pensa a come continua a crescere il settore Pet, se da bambino avessi detto a mio padre che ci sarebbero stati scaffali e scaffali di packaging e centinaia di m2 di negozi monosettoriali con all’interno prodotti per cani e gatti, secondo te cosa mi avrebbe risposto?
Il momento per muoverti è oggi, perché da qui a poco uno dei tuoi concorrenti farà questa scelta e dopo sarà davvero troppo tardi per accaparrarti la fetta più grossa della torta e la semplice sopravvivenza diventerà ancora più dura.
Fornire gli strumenti e le strategie migliori per un cambiamento è il nostro lavoro, contattaci se vuoi sapere come una scelta di packaging potrebbe aiutarti a conquistare il tuo mercato!
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Entra nel mondo del marketing nel 1996, nel 1999 ha fondato Ardigia Marketing Funzionale, nel 2013 fonda Packaging in Italy, l’agenzia di Pack dal Design italiano.
Alessio Maran
Grazie Michele.
Articolo interessante e, come al solito, fa pensare.
Devo dire che non avevo mai considerato la questione del salumiere che “sbrandizza” il salume nel momento stesso in cui inizia a usarlo ma, di fatto, è la sua natura, io consumatore devo fidarmi che il salumiere mi venda quello che chiedo.
Veniamo ora al “salume in vaschetta”, la cui distribuzione è (a mia memoria) ancora molto giovane, ha costituito, certamente, una rivoluzione in quanto trovo (in linea di principio) la stessa qualità “prontamente” disponibile, evitandomi la coda al banco e, nello stesso tempo, sono certo del marchio che compro e lo tengo sempre sotto gli occhi fino a quando non lo consumo. Pertanto, dal mio punto di vista è stata una idea, estremamente, innovativa.
Tuttavia, mi nasce una domanda, molte persone sono legate al concetto di “taglio fresco”, sinonimo di alta qualità (poco importa se poi il cartoccio resta 2 giorni in frigorifero), quindi come convincere questo segmento che il prodotto nella vaschetta ha le medesime qualità del prodotto appena tagliato dal salumiere?
Inoltre, la vaschetta prendi e vai, non rischia di essere letta come fast food (passatemi il termine in quanto lo intendo nell’accezione di pranzo veloce a portata di mano), scontrandosi con la politica slow food?
Ultima considerazione (promesso): quello che ho appena letto è un cambio radicale delle abitudini di acquisto, quanto tempo può richiedere un simile cambiamento? Come si potrebbe, di fatto, attuare?